Finché siamo in buona salute non ci preoccupiamo della meravigliosa macchina che è il nostro corpo. E' quando qualcosa non funziona più che ci accorgiamo del suo reale valore.
' allora che diamo importanza all'alimentazione, al movimento, al riposo e al rilassamento. Eppure la perdita della nostra salute può essere l'occasione per mettere in discussione il nostro modo di vivere e intraprendere un percorso di conoscenza di sé. Il termine MetaMedicina é composto col prefisso greco “meta” che significa “al di là”. Al di là della fisica c'é la metafisica, al di là del conscio c'é l'inconscio, al di là della paura c'è l'amore, al di là della morte c'è la vita, al di là della sofferenza c'è la felicità... La MetaMedicina guarda al di là della medicina, verso la parte sommersa dell'essere umano, quella più profonda, inconscia, per scoprire le cause della malattia. Cerca l'evento, l'emozione, il ricordo, che sono stati all'origine di ciò che poi si manifesta come sintomo e malattia. La MetaMedicina non fa diagnosi, non prescrive farmaci, né alcun tipo di trattamento. Si potrebbe dire che la MetaMedicina è l'arte di vivere nella consapevolezza e nell'armonia, e che solo quando diventeremo coscienti delle nostre sofferenze potremo liberarci di esse.
Un brano tratto da Metamedicina
Metamedicina: tu sei responsabile della tua salute e felicità
tratto dal libro: "Metamedicina - Ogni sintomo è un messaggio"
di Claudia Rainville
Assumere la responsabilità di ciò che viviamo significa riconoscere e accettare che i nostri pensieri, i nostri sentimenti, i nostri atteggiamenti hanno dato luogo sia alle situazioni felici e infelici in cui ci siamo imbattuti, sia alle difficoltà o alle gioie che viviamo attualmente.
Non possiamo parlare di metamedicina senza tener conto della legge di responsabilità, giacché essa costituisce la condizione di base per una vera guarigione. Quando studiavo microbiologia, interrogavo i miei professori per sapere da dove provenissero i microbi (batteri, virus, parassiti, e così via), e mi rispondevano che questi agenti patogeni provenivano da contaminazioni. Accettavo la cosa continuando però a chiedermi dove la prima persona avesse potuto contrarre il microbo. Mi adeguai, paga della massa di conoscenze che esploravo nel mondo affascinante dei microrganismi, ma i miei interrogativi erano latenti; quando cominciai a lavorare in ospedale, ricominciai a chiedermi perché il tale si ripresentasse di continuo con infezioni urinarie, e la tal altra con vaginiti a ripetizione.
Ricordo in particolare un uomo anziano, con la tubercolosi, che praticamente non usciva mai di casa; i pochi visitatori che riceveva non avevano il bacillo di Koch a cui si attribuiva la sua malattia: dove mai avevano potuto ‘contrarre’ quell’infezione? Intuitivamente, sapevo che gli esseri umani possiedono la capacità di sviluppare la malattia sia attirando l’agente infettivo mediante la frequenza vibratoria, sia destabilizzando le molecole delle proprie cellule, consentendo in tal modo lo sviluppo di una patologia. Ma quando azzardavo a proporre questa ipotesi, tutti mi deridevano.
Assumere la responsabilità di ciò che viviamo significa riconoscere e accettare che i nostri pensieri, i nostri sentimenti, i nostri atteggiamenti proprio come le lezioni che bisogna imparare nella nostra evoluzione – abbiano dato luogo sia alle situazioni felici e infelici in cui ci siamo imbattuti sia alle difficoltà o alle gioie che viviamo attualmente. Quando nei seminari e nelle conferenze tocco questo tasto, spesso la gente ribatte: “Sarei io che mi sono attirato un padre violento?» «Se un bambino nasce malato, non sarà mica colpa sua?” “Se mio marito ha perso il lavoro, è perché l’azienda in cui lavorava ha chiuso: non ha nulla a che vedere con lui” “Come a dire che, se ho mal di schiena, sarebbe colpa mia!” ”Non pensavo che uno potesse fabbricarsi una malattia! ” ”È davvero ingiusto. Mio figlio, che non ha fatto male a nessuno, sarà handicappato tutta la vita, mentre ci sono dei criminali che stanno benissimo”. Il mio secondo padre diceva: “C’è un’unica giustizia sulla terra, ed è la morte”.
Tutte queste riflessioni traducono una incomprensione della legge fondamentale della responsabilità, molto spesso confusa con il senso di colpa: è questa confusione a renderla difficile da accettare agli occhi di molte persone, che la leggono così: “Se questa situazione o questa malattia me la sono creata io, allora sarebbe colpa mia se sto male”. Questa chiave di lettura è sbagliata, ed è – per molti di noi – dovuta al tipo di educazione religiosa in cui siamo cresciuti.
La cultura giudaico-cristiana ci ha insegnato ad affidarci a un potere superiore, Dio, e che se agiamo secondo i suoi comandamenti e pratichiamo azioni meritorie, veniamo ricompensati in questa stessa vita o dopo la morte; se invece non obbediamo ai suoi comandamenti o a quelli della Chiesa ci attende la punizione! Con questa base alla prima difficoltà inattesa e inspiegabile automaticamente ci viene da pensare: “Cos’ho fatto di male perché debba capitare questo proprio a me?” Oppure cerchiamo un responsabile esterno, ci dev’essere per forza un ‘colpevole’. Così, quando una situazione ci fa soffrire, abbiamo preso l’abitudine di colpevolizzarci (credendolo di essercela meritata) oppure ne accusiamo altri, o addirittura Dio.
Quando dico che essere responsabile della situazione significa che mi riconosco quale creatore di ciò che vivo, non intendo insinuare che ho creato deliberatamente una situazione gradevole o sgradevole, ma che bisogna accettare e riconoscere che i nostri pensieri, il nostro sentire, i nostri atteggiamenti o le lezioni che è necessario integrare nella nostra evoluzione, hanno generato le situazioni felici o infelici che ora stiamo vivendo. La legge della responsabilità, di conseguenza, non ha nulla a che fare con il merito o la punizione, con la fortuna o la sfortuna, con la giustizia o l’ingiustizia, oppure con la colpa: riguarda solo il concatenarsi delle cause e degli effetti.
Non siamo forse liberi di accettare una credenza o rifiutarla? Di scegliere le parole di cui ci serviamo? Di interpretare una parola o una situazione? Non siamo forse liberi di amare e di odiare? Di accusare o comprendere? Di dire del male o del bene? Non siamo forse liberi di guardare la verità in faccia o di mentire a noi stessi? Di reagire o di agire? Di alimentare la paura o di avere fiducia?
Si, siamo liberi. Nei nostri pensieri, nei nostri sentimenti, nelle nostre credenze, nei nostri atteggiamenti, nelle nostre scelte. Sebbene abbiamo, tutti quanti, questa libertà intera, non possiamo sfuggire alle conseguenze di ciò che scegliamo di dire, fare, credere. Forse sei pronto a riconoscere il peso delle tue scelte e delle loro conseguenze, ma forse penserai: “Se una persona è al volante e un’altra la investe in pieno, non avrà mica scelto lei di avere un incidente?” No, certamente. E tuttavia, che cosa è accaduto prima dell’incidente perché quella persona si trovasse in quel contesto?
“Nulla è frutto del caso” - Questa verità fondamentale è a volte manipolata, per esempio da certi leader che, per far leva sui loro adepti, dicono: “Il caso non esiste, e se sei venuto qui è perché hai bisogno di noi”. È giusto dire che non esiste il caso, e tuttavia l’interpretazione che si può dare di questa affermazione non è necessariamente quella giusta. Può darsi che una persona si trovi in un gruppo per imparare a dire di no oppure per impiegare il proprio discernimento. Lo stesso Buddha diceva: “Non credete a me, verificate, sperimentate, e quando saprete da voi stessi che qualcosa è favorevole, allora seguitelo; e quando saprete da voi stessi che qualcosa non vi è favorevole, allora rinunciatevi”.
Un senso di colpa può essere la causa di incidenti, problemi e oltre forme di autopunizioni?
Osserva, e trai le tue conclusioni. Puoi verificarlo, se hai già avuto un incidente, che cosa stavi vivendo prima di esso? Un incidente a un piede o alle gambe può essere facilmente collegato a un senso di colpa, per il fatto di precedere qualcuno che invece fa da freno, magari perché a sua volta si rifiuta di avanzare. Un incidente a un dito può essere collegato a un certo perfezionismo; ci si sente colpevoli per aver eseguito un lavoro troppo in fretta o senza troppa cura. La simbologia del corpo può aiutarci a stabilire questo collegamento fra un incidente e ciò di cui si sentiamo colpevoli.
Metamedicina: tu sei responsabile della tua salute e felicità
tratto dal libro: "Metamedicina - Ogni sintomo è un messaggio"
di Claudia Rainville
Assumere la responsabilità di ciò che viviamo significa riconoscere e accettare che i nostri pensieri, i nostri sentimenti, i nostri atteggiamenti hanno dato luogo sia alle situazioni felici e infelici in cui ci siamo imbattuti, sia alle difficoltà o alle gioie che viviamo attualmente.
Non possiamo parlare di metamedicina senza tener conto della legge di responsabilità, giacché essa costituisce la condizione di base per una vera guarigione. Quando studiavo microbiologia, interrogavo i miei professori per sapere da dove provenissero i microbi (batteri, virus, parassiti, e così via), e mi rispondevano che questi agenti patogeni provenivano da contaminazioni. Accettavo la cosa continuando però a chiedermi dove la prima persona avesse potuto contrarre il microbo. Mi adeguai, paga della massa di conoscenze che esploravo nel mondo affascinante dei microrganismi, ma i miei interrogativi erano latenti; quando cominciai a lavorare in ospedale, ricominciai a chiedermi perché il tale si ripresentasse di continuo con infezioni urinarie, e la tal altra con vaginiti a ripetizione.
Ricordo in particolare un uomo anziano, con la tubercolosi, che praticamente non usciva mai di casa; i pochi visitatori che riceveva non avevano il bacillo di Koch a cui si attribuiva la sua malattia: dove mai avevano potuto ‘contrarre’ quell’infezione? Intuitivamente, sapevo che gli esseri umani possiedono la capacità di sviluppare la malattia sia attirando l’agente infettivo mediante la frequenza vibratoria, sia destabilizzando le molecole delle proprie cellule, consentendo in tal modo lo sviluppo di una patologia. Ma quando azzardavo a proporre questa ipotesi, tutti mi deridevano.
Assumere la responsabilità di ciò che viviamo significa riconoscere e accettare che i nostri pensieri, i nostri sentimenti, i nostri atteggiamenti proprio come le lezioni che bisogna imparare nella nostra evoluzione – abbiano dato luogo sia alle situazioni felici e infelici in cui ci siamo imbattuti sia alle difficoltà o alle gioie che viviamo attualmente. Quando nei seminari e nelle conferenze tocco questo tasto, spesso la gente ribatte: “Sarei io che mi sono attirato un padre violento?» «Se un bambino nasce malato, non sarà mica colpa sua?” “Se mio marito ha perso il lavoro, è perché l’azienda in cui lavorava ha chiuso: non ha nulla a che vedere con lui” “Come a dire che, se ho mal di schiena, sarebbe colpa mia!” ”Non pensavo che uno potesse fabbricarsi una malattia! ” ”È davvero ingiusto. Mio figlio, che non ha fatto male a nessuno, sarà handicappato tutta la vita, mentre ci sono dei criminali che stanno benissimo”. Il mio secondo padre diceva: “C’è un’unica giustizia sulla terra, ed è la morte”.
Tutte queste riflessioni traducono una incomprensione della legge fondamentale della responsabilità, molto spesso confusa con il senso di colpa: è questa confusione a renderla difficile da accettare agli occhi di molte persone, che la leggono così: “Se questa situazione o questa malattia me la sono creata io, allora sarebbe colpa mia se sto male”. Questa chiave di lettura è sbagliata, ed è – per molti di noi – dovuta al tipo di educazione religiosa in cui siamo cresciuti.
La cultura giudaico-cristiana ci ha insegnato ad affidarci a un potere superiore, Dio, e che se agiamo secondo i suoi comandamenti e pratichiamo azioni meritorie, veniamo ricompensati in questa stessa vita o dopo la morte; se invece non obbediamo ai suoi comandamenti o a quelli della Chiesa ci attende la punizione! Con questa base alla prima difficoltà inattesa e inspiegabile automaticamente ci viene da pensare: “Cos’ho fatto di male perché debba capitare questo proprio a me?” Oppure cerchiamo un responsabile esterno, ci dev’essere per forza un ‘colpevole’. Così, quando una situazione ci fa soffrire, abbiamo preso l’abitudine di colpevolizzarci (credendolo di essercela meritata) oppure ne accusiamo altri, o addirittura Dio.
Quando dico che essere responsabile della situazione significa che mi riconosco quale creatore di ciò che vivo, non intendo insinuare che ho creato deliberatamente una situazione gradevole o sgradevole, ma che bisogna accettare e riconoscere che i nostri pensieri, il nostro sentire, i nostri atteggiamenti o le lezioni che è necessario integrare nella nostra evoluzione, hanno generato le situazioni felici o infelici che ora stiamo vivendo. La legge della responsabilità, di conseguenza, non ha nulla a che fare con il merito o la punizione, con la fortuna o la sfortuna, con la giustizia o l’ingiustizia, oppure con la colpa: riguarda solo il concatenarsi delle cause e degli effetti.
Non siamo forse liberi di accettare una credenza o rifiutarla? Di scegliere le parole di cui ci serviamo? Di interpretare una parola o una situazione? Non siamo forse liberi di amare e di odiare? Di accusare o comprendere? Di dire del male o del bene? Non siamo forse liberi di guardare la verità in faccia o di mentire a noi stessi? Di reagire o di agire? Di alimentare la paura o di avere fiducia?
Si, siamo liberi. Nei nostri pensieri, nei nostri sentimenti, nelle nostre credenze, nei nostri atteggiamenti, nelle nostre scelte. Sebbene abbiamo, tutti quanti, questa libertà intera, non possiamo sfuggire alle conseguenze di ciò che scegliamo di dire, fare, credere. Forse sei pronto a riconoscere il peso delle tue scelte e delle loro conseguenze, ma forse penserai: “Se una persona è al volante e un’altra la investe in pieno, non avrà mica scelto lei di avere un incidente?” No, certamente. E tuttavia, che cosa è accaduto prima dell’incidente perché quella persona si trovasse in quel contesto?
“Nulla è frutto del caso” - Questa verità fondamentale è a volte manipolata, per esempio da certi leader che, per far leva sui loro adepti, dicono: “Il caso non esiste, e se sei venuto qui è perché hai bisogno di noi”. È giusto dire che non esiste il caso, e tuttavia l’interpretazione che si può dare di questa affermazione non è necessariamente quella giusta. Può darsi che una persona si trovi in un gruppo per imparare a dire di no oppure per impiegare il proprio discernimento. Lo stesso Buddha diceva: “Non credete a me, verificate, sperimentate, e quando saprete da voi stessi che qualcosa è favorevole, allora seguitelo; e quando saprete da voi stessi che qualcosa non vi è favorevole, allora rinunciatevi”.
Un senso di colpa può essere la causa di incidenti, problemi e oltre forme di autopunizioni?
Osserva, e trai le tue conclusioni. Puoi verificarlo, se hai già avuto un incidente, che cosa stavi vivendo prima di esso? Un incidente a un piede o alle gambe può essere facilmente collegato a un senso di colpa, per il fatto di precedere qualcuno che invece fa da freno, magari perché a sua volta si rifiuta di avanzare. Un incidente a un dito può essere collegato a un certo perfezionismo; ci si sente colpevoli per aver eseguito un lavoro troppo in fretta o senza troppa cura. La simbologia del corpo può aiutarci a stabilire questo collegamento fra un incidente e ciò di cui si sentiamo colpevoli.
"Il senso di colpa è uno dei sentimenti più distruttivi che possiamo nutrire"
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" Non siamo mai responsabili di ciò che accade agli altri. Tuttavia possiamo essere l'occasione che fa loro vivere una situazione di cui hanno bisogno sulla via della loro evoluzione"